L’isola pianeta

Adelphi Edizioni spa
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Per anni, quando i suoi viaggi erano soprattutto quelli dell’autobus romano 60, da via Nomentana a piazza San Silvestro, Manganelli coltivò un sogno temerario: spingersi fino alle isole Fær Øer. Nel 1978, vincendo timori e angosce, con una valigia munita di tutto quanto a un frequent flyer non potrebbe che apparire inessenziale – un Dickens come amuleto e «blande mani chimiche» che sappiano confortare nei momenti difficili –, lo scrittore partì alla volta dell’arcaica Islanda, prima tappa della sua incursione nel grande Nord. L’esito è un reportage indimenticabile, che suscita nel lettore euforia e insieme turbamento: lo sguardo di Manganelli sembra infatti misteriosamente capace di svelare la segreta essenza dell’«isola pianeta», dove il mondo fisico – simile a un gigantesco cadavere pietrificato – è preumano, folle, criptico, quasi appartenesse alla «misteriosa araldica delle origini», e ispira dunque sgomento e paura; dove la solitudine è l’esperimento di «una infinita prigione senza via d’uscita», di una «perdita irreparabile»; dove l’ultima tribù europea, chiusa nel forziere di una lingua infrangibile, offre asilo agli indovini e alle fate. E un paesaggio sognato e folto di simboli è anche quello delle isole Fær Øer, finalmente visitate nel 1983: terra, come disse Auden a proposito dell’Islanda, non toccata dalla volgarità, votata al culto della solitudine, dei «popoli grigi» che vivono sottoterra, dei sogni premonitori, delle visioni profetiche.

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