L'angioletto

Adelphi Edizioni spa
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Anche quando sarebbe diventato un pittore famoso, un’autentica leggenda, Louis Cuchas sarebbe rimasto il bambino dal­l'oc­chio limpido e svagato che sembrava non guardare niente e invece «guardava molta gente e molte cose, ma non quelle che ci si aspettava lo interessassero»; il bambino che non reagiva alle aggressioni degli altri e a cui avevano affibbiato il soprannome di «an­gio­letto». Era stato così sin da piccolissimo, negli anni in cui dor­miva su un pagliericcio uguale a quello che spettava a ciascuno dei cinque fratelli (ciascuno, peraltro, di un padre diverso), in una sordida stanza di rue Mouf­fetard. Anche la notte in cui aveva visto il fratello maggiore, poco più che undicenne, alzarsi la camicia e dire ad Alice, che di anni ne aveva solo nove: «Fam­melo!... E sta’ attenta con i denti», Louis non ne era stato né turbato né tanto meno sorpreso; così come non lo turbavano il fatto che la madre andasse in giro seminuda, né gli uomini che si portava a casa ogni sera, né le malattie, né la fame, né lo squallore della loro esistenza. Anzi, tutto lo incuriosiva e lo affascinava, e tutto lui as­sorbiva e immagazzinava – i tram, la verruca sulla guancia di una donna grassa, un quarto di bue ap­peso a un gancio, le espressioni delle facce per stra­da, i facchini delle Halles –, tutto quello che un gior­no sarebbe entrato nei suoi quadri in larghe pennellate di «colori puri»: come puri erano lo sguardo e l’anima di colui che se n’era ap­propriato.

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